All’oggetto del tuo amore perdoneresti tutto,
anche robe come “The Final Cut”, per dire…
Vabbe’ dai, qualche riga in più la scrivo: il primo contatto coi Pink Floyd dev’essere stato sicuramente il passaggio per radio di “Another Brick in The Wall”, uscito quando ero dodicenne e ascoltavo la radio, ma è stato un contatto distratto, quasi spaventato da quel video coi cartoni di Gerald Scarf e da quella cupezza nebbiosa tipica delle grandi metropoli britanniche.
Il vero primo contatto avvenne il giorno in cui mio padre mi portò a comperare l’impianto stereo, sarà stato l’inizio del 1982 o giù di lì: nel registratore a cassette che avrebbe composto il primo abbozzo del mio impianto hi-fi, girava una cassetta che mi ha subito talmente ipnotizzato da non capire il titolo del disco che vi era registrato sopra: mi limitai a memorizzare che era dei Pink Floyd (ed era facile, in quegli anni era uno dei gruppi più famosi in circolazione) e che era inciso su una cassetta “al cromo”, segno indiscutibile di qualità.
Con calma, perché le finanze di un quattordicenne ai tempi erano quello che erano, cominciai a cercare disperatamente il disco dal titolo misterioso, che mi aveva ipnotizzato nel negozio di componenti hi-fi per quelle quattro note di chitarra su un tappeto di sintetizzatori. Non sapendo il titolo, però, era cosa dura: sapevo che c’era in circolazione un disco con un muro sulla copertina che era il loro ultimo disco, di cui parlavano tutti. Allora andavo a caso: quando mio padre regalò il giradischi a me e a mio fratello, chiesi a mio fratello che mi comprasse “quel” disco dei Pink Floyd, ma lui portò a casa “Animals”, mio secondo 33 giri, stranissimo, con solo 5 “canzoni”, una delle quali occupava praticamente tutto il lato A: bello, eh, però cupissimo e con una copertina assurda con un maiale in volo su quella che sembrava una fabbrica. Ma non era “quello”.
Allora chiedo ad un amico di famiglia, noto per fare il dj nella discoteca del paese, descrivendogli per sommi capi e per quanto possibile a parole, la musica di quella caseetta, lui sicuramente lo conoscerà: “Come no, The Dark Side of The Moon è il disco più famoso dei Pink Floyd! Domani te lo porto”, e il giorno dopo si presenta su quel disco, abbastanza consumato (aveva oramai quasi 10 anni), con quel prisma in copertina: è fatto, mi sono detto, l’ho trovato, un disco con quella musica così “spaziale” non poteva non avere un titolo che avesse a che fare con lo spazio. Di nuovo però non era “quello” nella cassetta, ma fu una folgorazione: un disco che alternava musica (fantastica, tra assoli di chitarra mozzafiato e pezzi strumentali emozionanti nonostante l’assenza di testi) a suoni della vita di tutti i giorni. E io che pensavo che quel disco nel negozio di hifi fosse la cosa più bella mai ascoltata…
Poi iniziai il liceo, cominciai ad incontrare ragazzi che avevano gusti musicali più ampi vivendo in una cittadina più grande del paesello, e soprattutto iniziai a studiare inglese, cosa che mi avrebbe aiutato a ricordarmi il titolo di “quel disco”, che poi era “Wish You Where Here”, incartato nel cellophane nero e solo con un adesivo a dire che era un disco dei Pink Floyd. Comperai poi “The Wall”, dopo aver inutilmente tentato più volte di farmelo prestare da un compaesano notoriamente tirato per copiarlo su una cassetta (al cromo ovviamente), e tutti i dischi precedenti: “Meddle” lo comprai al ritorno da una gita scolastica alla Ricordi di Verona, insieme ad mio compagno di classe che comperò “Alchemy dei Dire Straits, ed insieme fummo guardati come dei paria musicali dai nostri compagni che ascoltavano Duran Duran e Alphaville. Ricordo anche la delusione di quando, dopo averlo aspettato nei negozi di dischi, comperai “The Final Cut” che tuttora rimane il disco dei Pink Floyd che mi è piaciuto di meno. Poi i dissidi tra gli elementi dei Pink Floyd fecero cessare la loro produzione musicale per anni: i dischi successivi, sono usciti al ritmo di uno ogni 5 anni, in pratica uno subito dopo il mio esame di maturità e l’altro poco prima della laurea: ricordo benissimo che acquistai “Pulse” poco prima di discutere la tesi, da un negozio nel corso di Pisa…
I Pink Floyd per me sono stati dei musicisti speciali: ad ogni acquisto di un loro disco ancora oggi riesco ad abbinare una ben precisa emozione, cosa che posso registrare per pochissimi dischi di altri autori.
Ebbene per “The Endless River”, fino quasi alla fine, temevo che la magia fosse finita: la musica scorre gradevole, ma certo, trattandosi di frattaglie e rimasugli delle sessioni di registrazione di “The Division Bell”, non c’era da aspettarsi molto: quando stavo per rassegnarmi è arrivata “Louder Than Words” a rinnovare quella magia.
Ma forse, come dicevo nelle prime due righe, al proprio amore si riesce a perdonare tutto…